La nuova norma (art. 17-bis del DPR n. 633/1972), che si compone di due commi, equipara i soggetti esteri a quelli nazionali. Ciò sta a significare che, per i redditi realizzati in Italia, perché l’esercente un negozio “fisico” deve pagare più imposte di chi gestisce un negozio “virtuale” attraverso un sito Internet con sede all’estero?
Il primo comma, nel porre rimedio a questa incongruenza, prevede che “i soggetti passivi che intendano acquistare servizi on line sia mediante operazioni di commercio elettronico sia diretto che indiretto, anche attraverso centri media e operatori terzi, sono obbligati ad acquistarli da soggetti titolari di una partita IVA rilasciata dall’amministrazione finanziaria italiana”.
Quanto sino ad ora evidenziato, comporta che tutti i fornitori esteri (non solo i giganti del web), per continuare a vendere on line in Italia, saranno obbligati a munirsi di un numero di partita IVA quando i clienti acquistano in veste di soggetti IVA. Di fatto, si tratta di una presunzione assoluta di esistenza della stabile organizzazione italiana del fornitore non residente, indispensabile – dal punto di vista del tributo sul valore aggiunto – per “bypassare” il reverse charge imponendo al prestatore il pagamento dell’imposta. Se, infatti, la posizione IVA accesa in Italia fosse riconducibile all’identificazione diretta o indiretta, cioè per mezzo del rappresentante fiscale, l’imposta verrebbe comunque assolta dal cliente mediante il sistema del reverse charge.
La nozione di “servizi on line” non viene codificata, ma è verosimile ritenere che si possa fare riferimento alla definizione di “servizi prestati tramite mezzi elettronici” di cui al Reg. UE n. 282/2011, contenente le disposizioni applicative della Direttiva IVA. Si tratta, in buona sostanza, dei servizi forniti attraverso internet o una rete elettronica, la cui natura rende la prestazione essenzialmente automatizzata, corredata di un intervento umano minimo e impossibile da garantire in assenza della tecnologia dell’informazione (es. download di musica e software).
Il relativo ambito applicativo è definito dall’art. 7 del Regolamento, che elenca una duplice serie (non tassativa) di servizi che, rispettivamente, rientrano e non rientrano nella definizione in esame. Sul punto, non vanno dimenticate le recenti modifiche introdotte dal Reg. UE n. 1042/2013, con la conseguenza, per esempio, che non costituiscono più prestazioni di e-commerce i servizi di videofonia, l’accesso a internet e al World Wide Web e i servizi telefonici forniti attraverso internet (ora classificati tra i servizi di telecomunicazione).
La nuova norma, peraltro, non è chiara laddove dispone che i servizi on line possano essere acquistati per mezzo del commercio elettronico indiretto. È noto, infatti, che quest’ultimo si riferisce ai beni e non anche ai servizi, presupponendo l’invio del prodotto all’acquirente utilizzando i canali distributivi tradizionali (es. posta, corriere, ecc.).
Nel novellato secondo comma si afferma che “gli spazi pubblicitari on line e i link sponsorizzati che appaiono nelle pagine dei risultati dei motori di ricerca (servizi di search advertising), visualizzabili sul territorio italiano durante la visita di un sito internet o la fruizione di un servizio on line attraverso rete fissa o rete e dispositivi mobili, devono essere acquistati esclusivamente attraverso soggetti, quali editori, concessionarie pubblicitarie, motori di ricerca o altro operatore pubblicitario, titolari di partita IVA rilasciata dall’amministrazione finanziaria italiana. La presente disposizione si applica anche nel caso in cui l’operazione di compravendita sia stata effettuata mediante centri media, operatori terzi e soggetti inserzionisti”.
In conclusione, è opportuno osservare che la disciplina illustrata potrebbe essere oggetto di censura da parte degli organi comunitari.
In primo luogo, perché in contrasto con il principio di libertà di stabilimento e, in secondo luogo, perché il citato Reg. UE n. 282/2011 esclude che il possesso di un numero di partita IVA sia indice automatico di esistenza della branch (art. 11, par. 3); tant’è che, agli effetti dell’IVA, essa presuppone un grado sufficiente di permanenza e una struttura che, in termini di mezzi umani e tecnici, sia idonea a consentirle di operare in autonomia rispetto alla casa madre (artt. 11, par. 2 e 53, par. 2).
Andrebbe eventualmente valutato se la Web tax possa trovare “copertura”, a livello comunitario, adottando la procedura dell’art. 395 della Direttiva n. 2006/112/CE, ammessa quando la deroga è finalizzata ad evitare evasioni o elusioni fiscali. È richiesto, però, che il Consiglio europeo deliberi all’unanimità, cioè devono essere d’accordo tutti e 28 i Paesi UE.