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Con la sentenza n. 2313 del 31 gennaio 2020 la Corte di Cassazione torna a pronunciarsi sui rapporti tra direttiva 2011/96/Ue e regime convenzionale del credito d’imposta in ordine ai dividendi corrisposti da una società figlia italiana in favore della propria madre residente nel Regno Unito.

La Suprema Corte ha cassato con rinvio la sentenza dei giudici di secondo grado che aveva “escluso l’applicabilità dell’art. 10, paragrafo 4, della suddetta Convenzione [ndr. negando il credito di imposta in favore della società inglese richiedente] per la circostanza che il rischio di doppia imposizione sarebbe stato eliminato dal fatto che la società aveva fruito dell’esonero della ritenuta sui dividendi, ai sensi dell’art. 27 bis del DPR 600/73 […]”.

Anche se la pronuncia verte sulla disciplina convenzionale relativa al rimborso del credito di imposta in favore del socio non residente, nel ragionamento della Suprema Corte si rilevano alcuni principi di notevole ulteriore rilevanza. Il riferimento è ai recenti arresti con cui i giudici di legittimità hanno negato l’applicabilità dell’esenzione da ritenuta prevista dalla direttiva sulla scorta, inter alia, di una (errata) interpretazione espansiva del requisito dell’assoggettamento a tassazione della società estera, recato dall’art. 27-bis comma 1 lett. c) del DPR 600/73.

Tale disposizione stabilisce che l’esenzione da ritenuta è subordinata alla soggezione delle società madri ad una delle imposte indicate nella direttiva “madre-figlia”, senza fruire di regimi di opzione o di esonero che non siano territorialmente o temporalmente limitati. Nella sentenza n. 25490/2019 la Suprema Corte ha affermato che la soggezione ad imposta in uno Stato estero non va intesa in astratto, come mera riconducibilità della società madre tra i soggetti passivi della rilevante imposta estera, ma come assoggettamento in concreto a detta imposta dei dividendi percepiti.

Inoltre, in tale sentenza, la Suprema Corte non ha considerato l’esenzione dei dividendi nello Stato della società percipiente quale regime strutturale della disciplina comune, quanto piuttosto un beneficio non cumulabile con l’esenzione da ritenuta alla fonte nello Stato della figlia. Infatti, la finalità della direttiva di eliminare la doppia imposizione verrebbe già realizzata per effetto dell’esenzione dei dividendi nello Stato della società madre, non potendo l’applicazione del regime comune risolversi nell’esclusione di ogni tassazione in ordine ai dividendi distribuiti, che verrebbe a generarsi laddove anche lo Stato della società figlia esentasse la distribuzione di utili. Tale argomento appare comunque criticabile in quanto confonde l’obiettivo di eliminare la doppia imposizione economica, proprio della direttiva, con quello di rimuovere fenomeni di doppia imposizione giuridica internazionale.

Nella sentenza in esame la Suprema Corte pare giungere a conclusioni diametralmente opposte, seppur con riferimento alla disciplina relativa al rimborso del credito di imposta convenzionale. In primo luogo, viene tracciata una distinzione tra i concetti di doppia imposizione giuridica e doppia imposizione economica internazionale: la direttiva “madre-figlia” è diretta ad eliminare quest’ultimo tipo di doppia imposizione.

Nella sentenza si afferma a tale proposito che la circostanza che la società estera fruisca di un’esenzione da ritenuta sui dividendi pagati dalla società figlia italiana non elimina necessariamente il rischio di doppia imposizione economica. Si tratta di un rilevante principio che dovrebbe valere anche in presenza di un’esenzione concessa dallo Stato della madre con riferimento agli utili di fonte italiana. In questi casi l’esenzione da ritenuta spetterebbe su tali utili anche in assenza di un effettivo prelievo nello Stato estero, ergo di un’esenzione goduta in tale Stato analoga all’esclusione prevista in Italia dall’art. 89 comma 3 del TUIR.

In due recenti arresti (Cass. nn. 30140/2019 e 29635/2019) riguardanti la convenzione Italia-Germania, la Corte aveva statuito il principio che l’articolo 24 della convenzione in esame, ponendosi l’obiettivo di eliminare la doppia imposizione economica sugli utili distribuiti da una società tedesca a una società italiana, impone all’Italia l’obbligo incondizionato di esentare (integralmente) i dividendi, anche nell’ipotesi in cui gli stessi siano già stati esentati da ritenuta nello Stato di residenza della società distributrice (Germania).

La giurisprudenza sopra richiamata pare (auspicabilmente) preludere ad un revirement, da parte della Suprema Corte, delle proprie precedenti sentenze, con cui si affermi che l’applicabilità dell’esenzione alla fonte prevista dalla direttiva spetti anche quando la società madre non residente goda nello Stato estero di un’esenzione con riferimento agli utili di fonte italiana (anche se il principio pare nuovamente smentito dalla criticabile sentenza n. 2617 depositata il 5 febbraio 2020).

Ulteriore spunto di interesse della sentenza n. 2313/2020 è rappresentato dal riferimento al principio di “neutralità fiscale”, ossia nell’accezione mutuata dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia Ue con riferimento alla direttiva “madre-figlia”, nell’evitare che la società madre subisca “un trattamento deteriore rispetto a quello che spetterebbe qualora le due società (madre e figlia) fossero dello stesso Stato”. Tale principio rappresenta un ulteriore argomento a supporto del citato revirement, in quanto il diniego dell’esenzione da ritenuta determina la discriminazione della società madre estera rispetto ad una corrispondente società madre italiana, violando palesemente il principio di neutralità fiscale che la direttiva vuole assicurare.

Inoltre, secondo la Suprema Corte, detto principio impone all’Italia di assicurare la corresponsione del credito di imposta previsto dall’art. 10, paragrafo 4, della Convenzione Italia-Regno Unito, ove ciò sia necessario al fine di scongiurare il rischio di doppia imposizione economica “nel rispetto del principio di neutralità fiscale perseguito dalla direttiva”.