La Cassazione, in merito all’esterovestizione e alla residenza fiscale di società estere, ha sottolineato la liceità dell’attività di direzione e di coordinamento nei confronti di uffici esteri.
I gruppi aziendali sono generalmente strutturati con headquarter molto articolati, che raggruppano al loro interno funzioni no core quali: finanza, legale, audit, compliance e con strutture periferiche “leggere” nei mercati di sbocco. Spesso ci sono poi entità ad hoc in determinati Paesi dove si concentrano attività quali la ricerca e sviluppo. Tutto ciò genera molteplici transazioni intercompany, che richiedono la definizione di prezzi di trasferimento a valore di mercato. In tali fattispecie, l’Agenzia delle Entrate tende a contestare l’esterovestizione di società estere appartenenti a gruppi italiani o la stabile organizzazione occulta di gruppi esteri con controllate italiane.
Relativamente al fenomeno dell’esterovestizione, le contestazioni dell’Amministrazione finanziaria riguardano i due seguenti profili:
- la residenza fiscale (articolo 73, comma 3 del DPR n. 917/1986) di società estere, con onere della prova a carico dell’amministrazione, ricondotte a tassazione in Italia in base alla sede di direzione effettiva;
- l’esterovestizione (articolo 73, comma 5-bis del DPR n. 917/1986), con onere della prova a carico del contribuente, qualora la società estera controlli una società italiana e sia a sua volta controllata da soggetti residenti o amministrata da residenti.
In entrambi i casi, la presenza di sub holding passive, deputate alla sola detenzione statica delle partecipazioni, determina la contestazione dell’attività di direzione e coordinamento della holding italiana. In tali ipotesi, può essere d’aiuto, come sottolineato dalla Circolare Assonime n. 67 del 2007, la prevalenza di asset esteri in portafoglio.
Nell’ambito del contenzioso relativo a queste tematiche è pertanto necessario considerare quanto affermato dalla sentenza n. 43809 del 2015 della Cassazione, la quale per la prima volta ha posto l’accento sulla liceità e sulla normalità dell’attività di direzione e coordinamento (articolo 2497 Codice civile). È quindi del tutto fisiologico che le direttive sulla controllata non residente provengano dalla controllante italiana, in quanto ciò che rileva ai fini della contestazione sono solo le costruzioni di puro artificio.
Invece, in merito alla stabile organizzazione, nei gruppi multinazionali si assiste sempre di più alla tendenza ad insediarsi all’estero non attraverso strutture societarie (subsidaries), bensì tramite stabili organizzazioni (branch), nella logica di pervenire ad una maggiore flessibilità e semplificazione societaria.
Tra le due situazioni estreme si inserisce poi l’ordinarietà di subsidiaries svuotate di funzioni attribuite nelle capogruppo o in altre entità designate alla ricerca e sviluppo o alla gestione degli intangibles. Ciò non significa come ricorda la Circolare Assonime n.17 del 2016, che tutte le entità locali di un gruppo multinazionale siano stabili organizzazioni occulte. È necessario, infatti, tenere in considerazione il livello di tassazione della controllante non residente, in quanto se la stessa non è localizzata in un Paese a fiscalità privilegiata né beneficia di regimi agevolativi o di ruling, non vi è motivo per erodere la base imponibile italiana. Quindi, la semplice contestazione legata alla limitata autonomia e sostanziale dipendenza della controllata italiana non può essere sufficiente di per sé, a configurare una stabile organizzazione occulta come stabilito dalla sentenza della Cassazione n. 3773 del 2012.