Come noto, è possibile recuperare l’IVA versata a seguito dell’emissione della fattura soltanto dopo la chiusura della procedura fallimentare.
Nella prassi, di fronte a crediti verso clienti ritenuti inesigibili a causa del fallimento, si possono individuare due diversi comportamenti contabili con i seguenti impatti in bilancio:
- svalutazione del credito ad eccezione della parte rappresentata dall’IVA, che sarà comunque recuperabile alla chiusura della procedura fallimentare;
- svalutazione dell’intero ammontare del credito con successiva rilevazione della sopravvenienza attiva (imponibile) al momento della rilevazione del credito IVA a seguito della chiusura della procedura fallimentare.
Va premesso che tale problematica non è disciplinata in modo esplicito dai principi contabili nazionali.
Talvolta, nella prassi, viene seguita la prima procedura, che potrebbe forse non trovare contestazioni da parte dell’Amministrazione finanziaria, ma che contabilmente non può essere ritenuta corretta.
L’adozione della prima soluzione è una sorta di “scorciatoia”, in quanto consente di non dover rilevare una sopravvenienza attiva imponibile (qualora si sia dedotto l’intero importo del credito) al momento del sorgere del credito IVA a seguito dell’emissione della nota di credito alla chiusura della procedura fallimentare. L’ammontare del credito non svalutato sarà, infatti, in tale caso, chiuso rilevando in contropartita il credito IVA.
Si tratta però di un comportamento che determina un’errata rappresentazione in bilancio. L’amministratore, infatti, in sede di chiusura è tenuto a valutare l’esigibilità del credito, costituito dall’intero importo dovuto dal cliente, cioè comprensivo dell’IVA che è inglobata nell’importo del credito in modo indistinto (art. 2426 c.c. comma 1 n. 8). Nei casi in cui si ritenga il credito inesigibile, è necessario effettuare una svalutazione integrale (100%) dello stesso.
È opportuno ricordare che, dal punto di vista civilistico, la svalutazione del credito deve essere effettuata indipendentemente dalla dichiarazione di fallimento, in quanto deriva dalla valutazione del presunto valore di realizzo da parte dell’amministratore. Molto spesso, l’insolvenza del cliente è potenziale e non ancora manifesta ed il fallimento interviene (sempre che ciò accada) alcuni anni dopo rispetto a quando l’impresa è divenuta insolvente. Si pensi, ad esempio, ad un’impresa in dissesto finanziario conclamato dalla mancata possibilità di pagare gli stipendi ai propri dipendenti. In tali situazioni, il credito deve certamente essere integralmente svalutato, a prescindere dalla procedura di fallimento (in essere o meno).
L’eventuale svalutazione parziale determinerebbe l’iscrizione in bilancio tra i crediti verso clienti di un parte del credito che è inesigibile, in quanto si ritiene che non sarà pagato dal cliente. D’altra parte, non sarebbe possibile nemmeno qualificare tale importo come credito IVA ed iscriverlo in bilancio tra i crediti tributari, in quanto al momento non si ha ancora il diritto di rilevare alcun credito verso l’Erario.
In ogni caso, a prescindere dalle problematiche di classificazione in bilancio e dai ragionamenti di convenienza fiscale, la mancata svalutazione integrale del credito sarebbe in chiaro contrasto con le norme del codice civile che prevedono l’iscrizione dei crediti al presunto valore di realizzo e del principio contabile nazionale OIC 15 in tema di crediti.